Giovani vecchi

Ah, i 30 anni. Uno stato mentale. Le pagine Facebook nostalgiche che ti fanno tornare in mente il Walkman e il Gimmi Ridimmi, le playlist dove convivono per magia French Affair, Natalie Imbruglia e i Nirvana, vantarsi su Twitter di essere cresciuti con l’approccio educativo dell’Uomo Tigre e di essere usciti su perfettamente normali (?) lo stesso; il doppiaggio di Ivo de Palma dei Cavalieri dello Zodiaco, le Crystal Ball che ti facevano venire l’angina pectoris, soffiare nelle cartucce del Game Boy, eccetera eccetera.

Tuttavia da trentaduenne credo che il fenomeno più caratteristico di questa magica mezza età prematura sia il decadimento del fisico e dei suoi apparati.

Io, per certi versi, ho mantenuto le buone abitudini della gioventù, solo che a quest’età comincio a capire che c’era un motivo se mia madre mi inseguiva urlando: se ora esco nella mezza stagione coi capelli bagnati il giorno dopo ho come minimo la cervicale e il COVID, se “me la faccio a piedi così ascolto la musica” dopo quaranta minuti di marcia spedita ho i polpacci in fiamme, se bevo il vino bianco esco di testa, se mangio troppo condito sputo fuoco come Smaug.

Oggi l’Azzimondi mi raccontava che stava studiando per un esame (che già a quest’età ti senti come se facessi l’università della terza età) e mi ha buttato lì casualmente, senza pensarci: “Sai poi mi metto a studiare tutto il giorno ma non c’ho mica più la testa di prima”. E tu ci ridi con cordialità, ma intanto ci rifletti bene e ti rendi conto che quella mattina, per memorizzare il kanji 金, ci hai messo quarantasette minuti e ci sei riuscita solo dopo aver razionalizzato con: “Casina coi piedini”. Sì, lo so. Tra un paio di settimane di studio dei kanji, la lingua giapponese mi presenterà così tante casine coi piedini che questa tecnica non potrà più salvarmi. Ma restiamo in tema.

A maggio siamo andati a vedere Vasco a Trento. La mattina abbiamo lavorato, siamo partiti dalla Toscana, arrivati a Trento, visto il concerto, ripartiti di notte, arrivati all’alba e tornati a lavorare. Tutta ordinaria amministrazione per un ventenne, immagino. A trent’anni invece stai in fila davanti ai Sebach guardando con riprovazione i rimastini del crack che non produranno mai PIL nella loro vita, aspetti il concerto senza goderti il gruppo spalla ma anzi lamentandoti continuamente della cappa di caldo, dopo un po’ che sei in piedi e che Sally non basta più per sorreggerti la motivazione cominciano ad accendersi tutte le spie di ogni possibile guasto dal menisco al tendine d’Achille, quando c’è l’encore una parte del tuo cervello sta pensando con preoccupazione al viaggio di ritorno (tipo “sì sì Albachiara tutto giusto, però andiamo che se mi sbrigo forse un’ora dormo”), la birra che bevi dopo il concerto non incontra i tuoi gusti perché non è della temperatura adeguata e poi alla fine si sente che era alla fine del fusto, l’alba un autogrill non ti emoziona più ma anzi borbotti che il caffé sa di fondino, arrivi a casa che ti vuoi ammazzare ma devi lavorare, e porti gli strascichi dell’esperienza sul tuo corpo per le due settimane successive, sotto forma di cerchio alla testa, gola infiammata, stomaco suscettibile e lieve spossatezza. Naturalmente, il concerto valeva la pena. Insomma, ok, sono vecchia ma non sono TOTALMENTE un’incudine nei coglioni. Però quando due giorni senza dormire per il concerto rock del secolo si trasformano da esperienza irripetibile on the road a fallimento generalizzato di tutti i sistemi dell’organismo, vieni veramente messo di fronte alla tua vecchiaia.

O per esempio. Ieri siamo stati a vedere i Verdena. Inizialmente tutto si svolge all’insegna della gioventù: partiamo gagliardi con la macchina ululando sguaiatamente I want it that way, Chop suey!, Crawling in my skin these wounds they will not heal, e tutto il pacchetto – nostalgico, s’intende. Ci facciamo il nostro birrino al paninaro lercio e ci presentiamo alla venue, certo, non prima di esserci estensivamente lamentati del fatto che la vicinanza dell’Arno produca eccessiva umidità che ti entra nelle giunture. E lì, il concerto va come il concerto deve andare, fra un uomo di età indefinibile che si cerca il fumo nelle mutande con la torcia e due ragazzine di 21 kg che hanno deciso di darsi al mosh in collo a noi. A un certo punto, dimenticandomi totalmente di essere nata nel 1990, comincio a ballare totalmente in trance per Razzi arpia inferno e fiamme.

Inutile dire che oggi ne porto le conseguenze.

Stamattina alla spalla ho la stessa sensazione che se mi avessero stretto la scapola in un tornio e l’avessero trapanata con una punta incandescente. Ho talmente male alla spalla che, mentre scrivo queste parole sofferte, un dolore sordo mi arriva fino alla punta dell’anulare corrispondenze informicolendomi la mano. Non vi dico cosa non mi è uscito dalla bocca quando, portando fuori i cani, Gladio è partito a corsa dando uno strattone al guinzaglio, ma era qualcosa che somigliava moltissimo a Padre Pio in abito serpentato che cavalcava un maiale con cento teste. Mi è cascato il tappo della bottiglia e nel chinarmi per riprenderlo ho sentito un dolore così forte che dopo due minuti e mezzo ero ancora lì incriccata, domandandomi “C’è qualche altra cosa che posso fare, già che mi sono abbassata?”.

Sei o sette anni fa andavamo a Livorno a cena tutte le settimane, che ora non vi dico che Livorno mi rimanga chissà dove come distanza, ma ora quando si deve fare serata la prospettiva che vince di solito è: “Cenino a casa con cannetta, ma il cenino di verdure perché sennò fa acidità di stomaco, e la cannettina proprio ina ina quasi tutto tabacco perché sennò poi domattina c’ho il calo di pressione”.

Naturalmente non tutti i miei coetanei sono messi così male. La Zizzo, per esempio, quando mi porta fuori a mangiare mi rabbocca il bicchiere di rosso così spesso che l’Unione Europea sta votando per delle sanzioni per tenerla sotto controllo; e capita anche a trent’anni di pisciare ubriache in un oleandro e rincasare alle quattro, solo che a vent’anni la mattina dopo sei operativo, a trent’anni la mattina dopo sei cerebralmente morto.

Andando a farmi un tatuaggio al mio posto di fiducia, parlando con la tatuatrice in pausa fumo, mi ricordo che dissi: “Ma lo sai che non mi capita più da qualche anno di fare un’intera giornata senza un problema fisico?”. E lei: “Eh. Abituati”. Già. Alla fine quel momento è arrivato. Sembra strano da dire, ma se non è il mal di gola vuol dire che hai mal di testa, sennò hai mal di schiena, o ti si è incantato un po’ un ginocchio, o ti vengono i crampi alla gamba, o c’hai un senso di spossatezza, o ti è venuto il centesimo raffreddore, o ti fa male un dente o un orecchio, o magari ti sei alzato dal divano con eccessiva baldanza, hai avuto uno svarione e sei cascato per terra scheggiandoti gli incisivi. Pensate che la scorsa estate ho avuto uno strappo alla gamba, ho pensato di far finta di niente e continuare a zampettare in giro come se avessi vent’anni, e ci ho guadagnato un’emorragia intramuscolare di 10 cm di lunghezza che probabilmente non passerà nemmeno più del tutto. E purtroppo non sto nemmeno esagerando.

Certamente non è che ci sia molto da sperare per il futuro. Tra quattro anni sarò più dalla parte dei 40 che dei 30, e per come vanno le cose adesso non credo di potermi augurare una situazione migliore; anzi forse converrebbe interessarsi fin d’ora per la rottamazione, o quantomeno per quel corso di ginnastica posturale per anziani che fanno all’ASL due volte alla settimana.

Io poi per ‘ste cose ci divento matta. Mi piace fare roba. Non vi dico che mi piaccia uscire in macchina tutti i giorni per collezionare qualche fantastica experience culturale, perché riguardo a quello ho accettato da molto tempo lo “sticazzi”. Però per dire. Di solito ogni anno vado a Bormio. L’anno scorso mi sono sparata quelle otto ore di macchina, seguite da tre spritz Hugo e da una serata di frizzi e lazzi, e ho continuato col mood vacanziero e con lo strabere e lo stramangiare, fin quando poi non sono tornata a casa e ho dovuto osservare un tempo di riabilitazione di quattro mesi per riprendermi dagli effetti devastanti di aver mangiato fuori per sei volte di fila. Non so nemmeno dirvi cos’è che non andasse nel mio fisico perché, molto semplicemente, tutto non andava: una situazione di avaria onnicomprensiva, che ormai mi rimane sempre addosso quando torno dalle ferie.

“I giovani di oggi non c’hanno il nerbo,” dice la mi’ mamma, ex moglie di uno che ha fatto il DJ alle serate fino a pochi anni fa, e lei stessa una che si sveglia alle cinque e saltella ininterrottamente in tutte le direzioni fino al momento di andare a dormire la sera.

Mi sono sempre incazzata (bonariamente) per questo modo di dire. Però forse un po’ è vero.

Morte per procedura

Oggi, invece che disquisire come al solito di videogiochi, dove con videogiochi mi riferisco praticamente solo a Final Fantasy, vi voglio raccontare con dovizia di traumi un simpatico episodio rustico a base di cani da ferma e vigili urbani. 

La storia si svolge nella micro-frazione di un mini-paesello delle colline toscane, che è poi il mio quartiere di residenza. Lo chiameremo, come già in precedenza, Rocket Town. Quivi risiedono a fatica 100 rustici, se si escludono gli operai delle cave di calcare e la popolazione estiva, la quale per mezzo dell’aggiunta di un generoso quantitativo di gitanti teutonici e fiorentini quadruplica per quattro mesi l’anno.

Portavo a spasso Gladio, il mio pastore australiano dal temperamento fra il cordiale e l’accanito fumatore di crack, e Reno, il mio corgi alquanto compassato e nonostante questo testa di cazzo. Siccome sono il pifferaio magico di quartiere, dietro di noi c’era il solito codazzo costituito dai miei gatti, i quali ci accompagnano per essere sicuri che all’erogatrice di cibo (che sarei io) non capiti qualche brutto incidente. In questo frangente solitamente mi capita di raccattare di tutto: un riccio che riparo momentaneamente in giardino per dargli da mangiare, un tasso belligerante in cerca di una rissa, il gatto di qualcun altro che si unisce alla processione o in questo caso, e non per la prima volta, un cane smarrito.

Con il fervore dell’onesto cittadino ansioso di fare senz’altro la cosa giusta, malgrado l’istituzione del cane da caccia entri in conflitto con tutte le volte che ho sentito uno sparo sulle colline e ho risposto fra me e me “Speriamo la prossima volta ti spari nel culo”, faccio entrare il cane in giardino e mi accingo a contattare il vicinato. 

Nel frattempo posso constatare che il cane è in realtà una femmina. Ciò comporta che le mie successive telefonate si siano svolte col frequente intercalare “GLADIO, METTI VIA QUEL CAZZO”, mentre cercavo di contenere il pastore che aveva un’improvviso irresistibile bisogno di propagare la specie mentre Reno arrancava dietro alla baraonda col candore inconsapevole della minore età.

Siccome momentaneamente i vicini non sanno di chi sia il cane, decido di commettere quello che il più delle volte, e anche in questo caso purtroppo, si rivela un errore da principianti: contatto la polizia municipale. 

Mentre aspetto la pattuglia, metto in casa i miei cani e lascio la trovatella in giardino in modo da evitare, dopo qualche mese sette, l’insorgenza di otto simpatici salsicciotti fra l’epagneur breton e il pastore australiano pazzo. Gladio non gradisce questa sistemazione, cosa che mi fa notare producendo una serie di ululati, boati e schianti che provengono dall’interno della casa, con mia conseguente grande preoccupazione per il mobilio di modernariato e la Playstation rimasta accesa. 

Arrivati i vigili, mi rendo subito conto dell’errore che ho commesso. Per prima cosa è necessario compilare la documentazione, che consiste in un plico di millecinquecento pagine dove i doviziosi tutori dell’ordine annotano luogo e ora, le mie generalità, i miei documenti, la mia carta astrologica, i miei sogni nel cassetto, la mia maestra preferita alle elementari e lo stato (pietoso) dei miei trofei su Elden Ring. Seguono informazioni sul cane, e qui viene la domanda: “Di che colore è?”.

Io sono leggermente confusa da questa domanda, giacché il cane in questione è letteralmente lì presente, comunque, per non offendere col mio abilismo chi eventualmente fosse daltonico, rispondo prontamente: “Bianco e nero”.

“Che razza?” – “Guardi, non lo so, forse un breton, insomma un cane da caccia,” rispondo, nella speranza ingenua che “cane da caccia simil-breton” sia una risposta che possa soddisfare i complessi schedari dello Stato italiano. Il più giovane dei due a quel punto, con l’aria di chi abbia avuto una grande idea, esulta: “Andiamo su google a cercare tutti i cani da caccia finché non ne troviamo uno che corrisponde!,” la qual cosa naturalmente viene salutata col mio più educato sconforto. Ma alla fine il campo viene compilato. Mi prendo la responsabilità di snellire la procedura dicendo che “Sì, sì, è sicuramente un Breton” più che altro per farla finita, ma se poi viene fuori che era un Deutsch-Drahtahaar probabilmente dovrò risponderne presso la magistratura fra qualche anno. 

Nel frattempo, col potere del vicinato di un piccolo paese, la vicina di casa è riuscita autonomamente a scoprire il proprietario della cagnolina smarrita. Saluto questa informazione con la luce negli occhi, giacché nel frattempo Gladio in casa sta avendo un assoluto collasso psichico, mentre la bretoncina sta devastando il giardino e scassinando il cancello in ferro artigianale per accedere a sua volta alla meritata copula col mio maschione. Ed è qui che la vigilessa distrugge le mie speranze: vengo a sapere che non è possibile contattare l’anagrafe perché sono chiusi e non è possibile parlare con “la Silvia” poiché è impegnata col Comandante, ma che quando avremo scoperto la clinica dove è in cura la cagnolina potremo senz’altro farlo venire a prendere a loro, ovviamente fermo restando che la cagnolina in questione resta da me fino a quando non potranno venire. 

“Ma scusi,” azzardo con l’ingenuità di un tenero figlio dell’estate, “i padroni li abbiamo trovati, abitano nella casa di sotto”. 

“Eh ma c’è la Procedura”. 

La Procedura tentacolare va avanti. La leggendaria ed elusiva Silvia è scomparsa dalla faccia della Terra, l’anagrafe canina ha un orario di apertura dello sportello telefonico che va dalle 10:00 alle 10:05 del primo martedì del mese. Gladio in casa sta ululando la totalità della Turandot e sta bestemmiando in australiano perché continuo a impedirgli di scopare, Reno ulula a sua volta per solidarietà, la canina ha sfondato nel giardino dei vicini con le loro preziose rose piantate millimetricamente, e nel frattempo io e i vicini parliamo fra noi, al che viene fuori: “Il babbo è a caccia e la mamma a lavoro, ma il ragazzo è in casa, non risponde, forse avrà la febbre?”. Un altro grave errore, di questi tempi. 

Una delle vicine si è attaccata al citofono dei vicini che hanno smarrito la cagnolina, riuscendo così ad evocare il misterioso fanciullo, che fortunatamente non è scomparso in un varco spazio-temporale insieme alla Silvia. I vigili, chiusi nell’Entaconsulta, sono arrivati a pagina 892 della documentazione e stanno probabilmente telefonando a Montecitorio per il via libera a concedere senza possibilità di scampo che il cane smarrito sia in Breton. A quel punto, all’arrivo del padroncino, sento la vigilessa strillare, con la voce del fuciliere di Marina intento a sedare con le pompe d’acqua una schiera di rivoltosi armati: “LEI SI FERMI LI’!”

Viene fuori che il ragazzo, il quale è evidentemente il padrone della cagnolina, non può avvicinarsi a nessuno di noi e nemmeno riprendersi il cane che è a tutti gli effetti suo, poiché ha la febbre e potremmo morire tutti di Covid da un momento all’altro. “Ma io non ho la febbre,” esala, esterrefatto, il tardo adolescente. Ma è uguale. Un campo di forza magnetico gli impedisce di accedere al cane, mentre i vigili arrivano a pagina 893, e iniziano a deliberare se il cane sia di taglia media o di taglia medio-piccola. 

Scende infine dai monti il padre del presunto malato, provvisto di tuta mimetica e fucile a tracolla. Con la morte nel cuore gli sussurro: “Guardi a me mi dispiace aver chiamato i vigili, giuro che se sapevo come andava a finire piuttosto andavo porta a porta”. Al sentir nominare i vigili naturalmente il villico cacciatore si sente subito morire, ma decide di affrontare la questione. Malgrado la cagnolina (Cloe) gli sia corsa incontro in pompa magna e si sia fatta immediatamente mettere il guinzaglio, i vigili non posso dire di avere una prova empirica e burocraticamente vincolante che quello sia proprio il suo cane, e così veniamo entrambi sequestrati per ulteriori generalità, lui in quanto potenziale pericoloso rapitore di cani e ladro di identità, e io in qualità (avete capito bene) di affidataria.

Devo ammettere che non so com’è finita la questione dopo che i vigili hanno cominciato a dire che il padrone non può riprendersi il cane in assenza della totalità della Documentazione Competente, dal libretto vaccinale al passaggio di proprietà: nel momento in cui la vigilessa ha pronunciato le parole “Così liberiamo la signora”, la signora, che sarei io, si è messa i polpastrelli sulla tempia e si è teletrasportata in salotto come Goku.

Però, ora che ho finito di scrivere il post, vi devo dire che mi sento un po’ in colpa, perché il poveraccio è sempre lì.