Due(mila) parole sul racconto di Ishikawa

Anche se ho sempre voluto utilizzare questo blog come bacino/cloaca di riflessione sulle cose di cui scrivo fan fiction, non mi è mai capitato veramente di dare corso a questa riflessione. Accade però che ultimamente io sia completamente impantanata sulla parte di Tomoe in una long che sto scrivendo su Ghost of Tsushima. Così, per ritardare ulteriormente il momento di scrivere la parte che mi sta sul cazzo (puro e semplice), riflettendo al tempo stesso sulla costruzione dei personaggi in modo da sentirmi meno in colpa circa le mie scadenze auto-imposte, ho pensato di uscirmene con qualche pensiero sul racconto di Sensei Ishikawa. 

NON parlerò della mia fan fiction, perché è un progetto cross-over con un mio romanzo originale e penso che andrei fuori tema e fuori canon quarantasette volte prima di aver finito il post… fuori canon magari ci andrò lo stesso, perché ovviamente le mie opinioni qui dentro faranno davvero del loro meglio per non pisciare fuori dal vaso, ma sapete tutti che quando ti parte l’headcanon non vi è decenza che possa fermarti.

Comunque, parlando del racconto di Ishikawa.

La prima cosa che ho letto su YouTube quando mi sono riguardata tutto il racconto in forma di video onnicomprensivo è stata, abbastanza comprensibilmente:

Ok, lasciamo perdere che mi sono accorta solo ora di aver screenato il commento corto senza premere su Leggi tutto. Ci sono delle volte che purtroppo mi approccio al mezzo comunicativo come la mi mamma che si mette gli occhiali per guardare i meme e nel farlo per sbaglio telefona all’ASL circondariale, si abbona a Candy Crush e manda in stampa tre documenti. Ma insomma avete capito il senso. In effetti la cosa che mi ha sempre reso molto difficile sintonizzarmi davvero sul personaggio di Tomoe è in parte questa: chi è Tomoe? Il gioco mi dà veramente i mezzi per capirlo?

La storia idealmente si dividerebbe nella metà in cui la nostra unica fonte di informazioni è Ishikawa, finché nella seconda metà sentiamo la campana di Tomoe. Purtroppo però la metà di Ishikawa, più che una metà, sono tre quarti, e al punto di vista di Tomoe è dedicato uno spazio davvero ristretto liquidato in gran fretta. Entrambi i personaggi potrebbero letteralmente aver pronunciato una bugia a ogni parola, dato che producono versioni così dissonanti… e la conclusione del racconto non sembra nemmeno tirare tutti i fili della questione; se tira qualcosa, tira i remi in barca, e la fa finita, a mio parere, un po’ troppo alla svelta.

Quindi non sono d’accordo con questo commento (nel senso che “disappointing” mi sembra un tantino esagerato e dettato da una lettura superficiale, ma ci arriverò) ma riesco a vederne il senso: il gioco francamente si aspetta troppo da noi e, nel proporci il punto di vista di Tomoe in pochi minuti, sembra volercelo dare più che altro a bere.

Quindi sì, ora che devo scrivere mi domando, spesso, “chi è Tomoe”.

Naturalmente devi scriverla in modo abbastanza grigio, come si conviene con personaggi essenzialmente non sociopatici ma pur sempre portati all’estremo in nome della sopravvivenza, qualcuno che non è mai chiaro se sia costretto dalle necessità o se ci abbia perfino preso un po’ gusto. Ma il suo rapporto con Ishikawa va essenzialmente dedotto, i crimini passati prima dell’apprendistato immaginati. I suoi pensieri durante il tradimento mongolo, un mistero totale.

“We judged each other too harshly,” scrive Tomoe nella lettera di saluto. Quindi forse i coloriti racconti di Ishikawa, in cui Tomoe è una bestia venuta al mondo con la sete del sangue dei giovinetti e delle vergini tipo signora della Transilvania, è da prendere con le pinze. Ma fino a che punto non lo sapremo mai: la brevissima parte di Tomoe nel racconto, dato che si conclude con un inganno (Tomoe che sfrutta Jin e Ishikawa per imbarcarsi per il Giappone), ti lascia col dubbio se l’arciera astuta, con le sue spiegazioni, ti abbia preso per il naso cercando di suscitarti compassione. Ripeto, deludente no, ma eccessivamente succinto sì, può darsi.

Vorrei precisare che il racconto di Ishikawa l’ho amato moltissimo. Sarà forse che non avrei mai voluto finirlo, che mi fa parlare così. Però ho avuto la sensazione che, se la carica poetica era altissima, la soddisfazione narrativa per il giocatore alla fine fosse meno del previsto, non tanto perché il finale fosse aperto, ma perché il verdetto sui personaggi è stato lasciato totalmente al mio giudizio senza che però io mi senta di avere in mano elementi a sufficienza. Una bellissima conclusione, con Tomoe che si allontana su una barca senza cercare di nascondersi e di sottrarsi alla freccia fatale (non viene uccisa, ok, ma era pronta a questa evenienza, e si offriva come bersaglio), mentre i due leggono la sua lettera, ma risolve davvero tutta la carne che è stata messa al fuoco?

Seguitiamo col dire che io a Ishikawa gli voglio bene. Non posso non voler bene a quel jerk che ti fa scalare in free climbing una parete rocciosa solo per poi fare comodamente il giro e prenderti pure per il culo, insomma. I dialoghi in cui strapazza Jin sono stati la mia ragione di vita per tutto il gioco. Naturalmente sono bollita per bene nel mio brodo di giuggiole anche tutte le volte che Jin gli ha tenuto testa, generando dei dialoghi che secondo me sono dei capolavori del sarcasmo appena trattenuto, fra la necessaria distanza sociale e la voglia di infilare al tuo interlocutore un Artefatto Mongolo nell’occhio.

Sinceramente però, quando è diventato chiaro che Ishikawa ha un po’ il vizio di raccontare solo una parte della storia, o addirittura di alterarla a suo comodo per uscirne meno malconcio, io sono stata ufficialmente conquistata. Sarà che inserire personaggi bugiardi, a mio modo di vedere, è un po’ il marchio (che ho sempre invidiato) di chi sa scrivere rispetto agli scrittori della domenica, sarà quella testa a uovo con la receding hairline e l’occhio pigro, ma insomma, potete considerarmi un sensei Ishikawa stan account.

Anche questo racconto, come in definitiva tutti gli altri, ruota intorno a una figura diventata incompatibile con la via del samurai. Tanto per citare l’esempio più lampante: a seguito del tradimento di Hironori, laddove il codice del samurai* avrebbe preteso da Ishikawa di precipitarsi a morire il più velocemente possibile, abbiamo un uomo che ammette con Jin di essersi detto di voler far sopravvivere la Via dell’Arco, per non aver avuto il coraggio di affrontare il suicidio. Un uomo che se l’è raccontata, in parole povere. In questo modo l’arciere si trova a convivere col conflitto di una vita che si è risparmiato per poi sentire di averla nuovamente sprecata con un allievo traditore. Per salvare il salvabile, Ishikawa sembra dedito a proteggere come può il proprio onore di guerriero anche a costo di mentire, ma alla fine compie il suo più clamoroso distacco dal codice d’onore, e rinuncia a punire Tomoe, forse non essendo capace di ucciderla. Tutto questo è molto bello perché praticamente su Tsushima l’unico che si ossessiona con ‘sto benedetto codice è lord Shimura e tutti gli altri fanno allegramente il cazzo che gli pare.

*Sto ancora studiando, e il mio testo di riferimento per ora è soltanto l’Hagakure, quindi si parla di parecchio tempo dopo gli eventi dell’invasione dei mongoli del XIII secolo; non ho la minima idea se le stesse considerazioni siano applicabili anche a un’epoca precedente, ma guardando ai dialoghi di lord Shimura mi sembra di non buttarla tanto di fuori anche se mi riferisco a precetti morali del 1700.

Certamente le fasi iniziali e centrali del racconto non depongono molto a favore di Tomoe: non sono assistiamo alla gioconda pratica di trasformare il contado locale in puntaspilli per esercizio di tiro con l’arco, ma veniamo anche a sapere che da adolescente, prima di recarsi da Ishikawa, Tomoe ha già avuto la sua esperienza in un gruppo di banditi che terrorizzavano Otsuna.

Al contempo però anche Jin sembra dubbioso su come interpretare la questione. Ricostruendo un po’ a senso, e un po’ a piacere, tutta la vicenda, si può immaginare che, dopo che Ishikawa ha tentato di ucciderla a seguito di un brutto tiro giocato ai Nagao, in Tomoe fossero pronti a germogliare i semi del tradimento, e non sia tanto sorprendente che, messa di fronte alla scelta fra la vita e la morte, abbia scelto di vivere tradendo gli insegnamenti di Ishikawa e un Giappone che non le ha mai dato niente di quel che meritava (“You drove her to the Mongols,” dice Jin). Tradire, in sintesi, perché in fondo non si sente di avere un ideale per cui morire… e certamente è una mancanza, per il maestro, non essere riuscito a trasmetterne uno. Ma dopotutto la via del samurai è fatta più a misura di un nobile guerriero che di un nullatenente, ma forse di questo parlerò meglio a proposito di Ryuzo. Ma fino a che punto Tomoe era sofferente nel tradimento? E quell’azione contro i Nagao? Involontaria, o perfettamente cosciente, magari già col desiderio di punire Ishikawa?

Risposta non pervenuta, tanto per cambiare; a fatica un paio di righe di dialogo, e da parte di un relatore quantomeno parziale. Quel che trovo simultaneamente intelligente e irritante nel racconto di Ishikawa è che la verità non è servita su un piatto d’argento, ma anzi, è nascosta così a puntino da non essere del tutto chiara neppure alla fine della storia. I narratori della storia sono inaffidabili. Che ripeto, è un bel tratto nella scrittura (o quantomeno un tratto che mi piace molto) ma quando poi tocca a te scriverci su ti ritrovi, per dirla in istile trovatore, che non ci hai capito un cazzo di niente.

In questo racconto (come succede anche in altri nel gioco) ti devi sostanzialmente levare dalla testa il vezzo di identificare la vittima e il carnefice… certo, fermo restando che i contadini di cui sopra trasformati in arrosticini concorrono egregiamente al ruolo di vittime in tutti questi giochi di morte. Ma fra Tomoe e Ishikawa, è più difficile da dire: ci facciamo un’idea di un maestro crudo, quasi cattivo, acciaio spalmato di vetriolo, probabilmente empatico come il sensei di Uma Thurman in Kill Bill, incapace di fornire una direzione nuova a quella che invece è un’anima che ha vissuto sempre nella violenza, nell’espediente per sopravvivere, nella sfumatura di ogni possibile moralità. Sappiamo che entrambi avevano un temperamento orgoglioso, che non deve aver originato una collisione piacevole; e che l’allievo ha tradito, sì, ma che automaticamente quindi il maestro ha fallito.

E cosa si può dire del terzo allievo di Ishikawa, Jin? Dal punto di vista di un samurai, anche lui, che volta le spalle al bushido per diventare lo Spettro, si può considerare un fallimento; è vero che è principio aureo aiutare il prossimo in ogni occasione e che si può dire che Jin abbia sfigurato la via del guerriero, paradossalmente, nel tentativo di seguirla fino in fondo, ma se consideriamo lord Shimura l’autorità morale a cui fare riferimento per quanto riguarda il codice, ovviamente dobbiamo concludere che Jin sia un completo rinnegato, non esattamente l’allievo dell’anno. D’altra parte non è detto che Ishikawa, alla fine del racconto, la pensi ancora così. Si ha al contrario l’impressione che i massimalismi samurai ormai siano una questione abbastanza nebulosa per l’arciere: col risparmiare Tomoe, Ishikawa ci dimostra di essere giunto alla conclusione di voler fare dei compromessi affettivi, e quindi in fin dei conti non sapremo mai se si considererà soddisfatto o meno del suo lavoro con Jin, ma non dobbiamo più concludere per forza che la risposta sia no. Sempre perché comunque Lord Shimura è l’unico che ci tiene a queste cose, pover’uomo.

A detta di gran parte dei commentatori su internet, Tomoe non avrebbe avuto diritto al lieto fine, ma la mia opinione è più sfumata. Certamente, all’occidentale, si tratta di un lieto fine a tutti gli effetti, salpando verso una nuova vita. Interpretato sotto l’etica samurai che permea tutto il gioco, è invece un finale senza la necessaria chiusura, uno di rinuncia a qualunque principio necessario alla vita (e quindi paradossalmente, di morte), in cui la conservazione della propria vita si vena di considerazioni amare. Narrativamente poi è una dolcezza un po’ striata di tristezza: “The way of the bow is behind me”. Sigh.

In pratica, il racconto finisce con un fallimento su tutta la linea per Ishikawa, anche se naturalmente ci si può consolare considerando quel cedimento di tenerezza nel risparmiare la vita a quella che sarebbe stata sua figlia. Del resto, non ha forse avuto Ishikawa stesso un momento di cedimento quando ha confidato a Jin di essersi pentito di non essersi dedicato a creare una famiglia? “Family is more important,” dice, avvertendolo di non lasciarsi consumare dallo Spettro, come lui è stato consumato dalla Via dell’Arco. E alla fine la famiglia davvero è più importante, e la cosa si traduce nella rinuncia a uccidere Tomoe. Sono d’accordo anch’io che la storia non ha reso a Tomoe un grande servizio e che il finale non fosse molto soddisfacente dal suo punto di vista, ma sicuramente era un finale davvero toccante per Ishikawa, che era pur sempre il “titolare” del racconto. Così, Tomoe è una sorta di comprimaria non portata totalmente a compimento, il che è un peccato.

Comunque non penso che dimenticherò tanto facilmente certe inquadrature: Tomoe con la maschera di volpe che si getta dalla scogliera, Matsu nella neve, i grugniti sconnessi di Ishikawa per nascondere il dolore, e perché no, anche tutti quei bei braccianti appesi come prosciuttini. Continuo a non sapere veramente come regolarmi con la scrittura di questi passaggi, ma sicuramente il racconto di Ishikawa mi ha dato di che pensare e ricordare.

Le 7 volte che Final Fantasy 7 mi ha cambiato la vita

Questo è un post tipo album dei ricordi, se mi consentite di lanciarmi in questa espressione da vecchi barbogi. L’album dei ricordi inerenti non al mio videogioco preferito, non alla mia hyperfixation (se adesso mi consentite di fare un testacoda e diventare una tumblrina), non al miglior videogioco del mondo o altre dichiarazioni strampalate ma semplicemente inerente a una delle esperienze più totalizzanti della mia vita. Quella che ha il potere più grosso di tutti: te la cambia.

Final Fantasy VII non è semplicemente un piezz ‘e core, una nostalgia del 1996, un ricordo di infanzia, un periodo della mia vita, o altro su questa falsariga malinconica (con tanto di deriva integralista da “L’unico FFVII è l’OG”). Naturalmente non è nemmeno una recensione impersonale con pagelletta su gameplay e giocabilità o uno scandalo popolare post-Remake. E inevitabilmente non è ship war (che ansia), non sono le fisse e i dibattiti gen Z sui prodotti che si possono consumare o meno per essere dei bravi giustizieri boy scout (che cazzo di ansia). Cos’è allora? Lo so che avevo detto “niente dichiarazioni strampalate”, ma per quanto sembri strano non esagero quando dico che Final Fantasy VII è una delle esperienze creative più importanti della mia vita. Di conseguenza, in questo post di ricordi sormontato da quel tronco di figo imperiale di Rufus col suo cane statement, ne parlerò in questi termini.

Facciamo un chiarimento terminologico, che conferirà a questo articolo quel sapore saggistico da accademico pluridivorziato e mummificato che vi darà l’illusione che io stia dicendo cose autorevoli. 

Per esperienza creativa mi riferisco a qualcosa che ha un grande potere plastico sulla mente, e di conseguenza sul vissuto. Qualcosa che un giorno ti succede, e ti cambia, come dicevo. Ti cambia i pensieri, ti accende una voglia, ti cambia l’umore. Argomenti, questi, voi capite, di stringente attualità per una persona che soffre da vent’anni di un cronico disturbo della personalità e dell’umore.

Da corvo torvo borderline, sono ossessionata da molti anni col mio cervello: ho cercato sempre di capirlo, spesso l’ho sopravvalutato, molto più spesso l’ho odiato a morte, ma col tempo ho imparato a tollerarlo, come quel genitore decrepito stracciacazzo con cui ti ha inchiodato il resto della famiglia, a sentirlo imprecare e a vuotargli il vaso da notte. Soprattutto ho capito cosa lo fa andare avanti, quando tutti i miei neurotrasmettitori fallati gli comandano di fermarsi. Se è l’amore per chi ho intorno a contrastare la fine di tutte le speranze e l’esaltazione senza gioia imposte dalla depressione bipolare, è proprio l’atto creativo l’antitesi esatta degli effetti del mio male. Sentire improvvisamente la voglia di inventare e di cambiare le cose, che si sostituisce alla determinazione a fermarsi e sparire. Come un fuoco d’artificio nel buio, stile Gold Saucer.

Final Fantasy VII l’ho sognato e pensato, riraccontato e riscritto da capo, disegnato e inventato, discusso con gli amici e qualche birra, immaginato e fantasticato, ci ho fatto i video, ci ho fatto le magliette, ci ho fatto le teorie narratologiche e astrologiche, ci ho fatto lo smut e i crack pairing, con qualche personaggio mi ci devo essere pure masturbata, l’ho giocato over and over, ci ho fatto di tutto e sono cambiata ragionando all’infinito e vivendo i suoi personaggi, e l’ho ritrovato, di anno in anno, ogni volta che ne avevo bisogno senza saperlo. Lavorando al bar, me la credevo un po’ Tifa, e vai di romanticizzazione. E due “Yuffie” senza le quali la mia vita non sarebbe uguale sono qui grazie a Final Fantasy VII. Ma andiamo con ordine.

L’avventura è cominciata quando è uscito, because I’m that old.  

Farei qualsiasi cosa per ricordarmi più precisamente come mi sentivo all’epoca, quando a sei anni di inglese capivo veramente poco, e quel poco lo capivo perché io e mio fratello giocavamo solo a giochi in inglese. Io non ce l’ho un ricordo preciso di quei pomeriggi nella brutta, brutta camera della nonna paterna, con cracker e Nutella, a non sapere che la nostra presenza era l’unica consolazione della sua vita di merda, a incantarci dei fondali incasinati delle Slums, a spaventarci del mostro appeso a una lama nella Shinra Manor, a sentire quel brivido di Inquietanza quando viene mostrata la foto di Tifa, Zack e Sephiroth, o quella flashata assurda quando si scala la parete coi graffiti.

Insomma non mi ricordo una sega se non tante cose sparse, diciamo così, eppure riascoltare i vecchi midi delle musiche dei bassifondi di Midgar mi riporta lì: in un posto che non mi ricordo più, ma che sopravvive nel mio cervello non come una storia coerente ma come un flash, ancora oggi aggrappato con le unghie a quelle OST.

Più di vent’anni di ricordi, a quell’epoca, non si erano ancora verificati, e la gran parte delle categorie mentali con cui oggi conduco l’esistenza allora non esistevano, io di Zack e Cloud non avevo capito quasi nulla, ma Final Fantasy VII era lì, e c’era così forte che ancora oggi quando ascolto la colonna sonora dei Turks sento in bocca quei cracker, e mi sembra quasi di potermi ricordare di nuovo la faccia di mia nonna, un’altra delle tristezze che ho dimenticato senza farlo apposta. 

… Vale anche la pena ricordare che all’epoca, con gli omini fatti a cubetti, Reno con degli zigomi davvero gibbosi e Barret con delle boe al posto delle braccia nacque il mio amore mai interrotto per Rufus Shinra. Si può dire che io dei suoi discorsi abbia capito solo la parola “terror”, ma il suo carisma spixxellato evidentemente trovò la strada per il mio cuore da ragazzina dispotica in pectore. Non ho mai smesso da allora di ululare “OH MIO DIO OH MIO DIO OH MIO DIO È LUI, VENGO” a ogni sua entrata in scena in tutti i venticinque anni seguenti di questa avventura. Sì, anche in veste di paraculo falso invalido in pigiama in Advent Children. 

Non posso dire di aver rigiocato a Final Fantasy VII ogni anno, vita natural durante. Anzi, sapete che c’è, non l’ho cagato per parecchio tempo anche in seguito, mentre uscivano i capitoli della Compilation. Fino al 2012… un anno strano. 

(Accludo galleria di sfattanza giovanile, quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole, per settare il mood ventenne… e sì, sono sempre io, è che cambiando sempre tutto ovviamente cambiavo anche i capelli)

Nell’estate del 2012 avevo 22 anni, e ho trascorso qualche mese in Inghilterra, nel Dorset.

Riassumo? Riassumo: depressa marcia, un’esistenza felice, eppure putrefatta fino al midollo. L’unica cosa che mi ha impedito di stoppare completamente la mia vita è stato essere nata, chissà per quale mistero, con una forza motrice perenne. Giunti al 2012, il disturbo bipolare e il disturbo borderline non seguiti erano a tal punto penetrati nel mio essere da essere diventati una parte della mia personalità quanto della mia filosofia. Se dentro di me c’era un conflitto costante di pensieri di elevazione disumana accompagnati dalla marcescenza di tutto quello che una volta mi aveva fatto credere nel futuro, tutto quello che componeva l’atto del fermarsi mi era impossibile: non riuscivo a star seduta, a passare un giorno in casa, a fermarmi a lungo nello stesso posto. Uscivo sola, e giravo, giravo. Dopo aver girato per l’Inghilterra tornai a Trieste, quindi volai in Russia per un dicembre sotto zero, e poi sei mesi in Croazia a seguito dei quali mi sarei arruolata in Marina per un istinto misto fra sperimentazione e decostruzione. Cosa c’entra Final Fantasy VII? C’entra perché il 2012 fu l’anno in cui nacque Bohemian Rhapsody, proprio in Inghilterra, su un treno per Salisbury. 

Bohemian Rhapsody è una mia fan fiction sulla Compilation di Final Fantasy VII, in sintesi. Ma vi prego di avere pazienza se adesso ne parlerò come di una specie di opus monumentale. Francamente, più che monumentale, è un puttanaio: bambini morti ammazzati, donne incinte torturate, stupri di gruppo, mutilazioni, schiavitù sessuale, personaggi principali che si impiccano e altri che si drogano. Abbastanza kitsch. Oggi ho rinnegato lo stile, nel mio rinascimento del distacco postmoderno. Ma non posso rinnegare il contenuto, non più di quanto potrei rinnegare me stessa (che a volte uno lo farebbe anche, eh, ma non si può). Ci ho messo più di otto anni per scriverla, e in questi otto anni, mese dopo mese, la mia mente andava sempre più a troie, per dirlo in langue d’oc

E intanto in quegli anni, quando tornavo in Italia, rigiocavo a Final Fantasy VII con gli amici. Ricordo la battaglia finale contro Sephiroth in due, con una canna a testa, urlando “AIUTO FERMO NON HO CAPITO LA CONSEGNA”. O anche Barret, con i nomi che avevamo dato ai personaggi, che urlava a Cloud: “BIGONGO, WHERE’S CONTADINA???”. Non avendo la PSP, mi guardavo Crisis Core in versione movie su YouTube, over and over. Ci facevo pure gli AMV edgelord:

Ci trovavamo a volte a Pisa dall’Azzimondi, a giocare a Dirge of Cerberus, generalmente troppo ubriachi per non farci esplodere il fegato dal ridere quando arrivava “ROSSO THE CRIMSON”. Non ho mai particolarmente approvato la Compilation, anche se questa è una storia per un altro post. Ma eravamo insieme, a ridere e ridere mentre il nostro mondo di ventenni esplodeva tutte le settimane. 

In Inghilterra nacque un personaggio femminile che chiamai Victoria Glastonbury (anche perché simultaneamente c’era Black Butler che mi creava un certo fascino per l’età vittoriana). Scrivendo di continuo, continuando a inventare, cancellare, fare e disfare, Victoria diventò la generalessa Mako con cui senza saperlo, nella mia negazione assoluta, stavo sezionando i miei sensi di colpa, le mie relazioni tossiche, quell’amico del cui tentato suicidio venivo incolpata io, la mia attrazione per le sostanze, la mia rabbia cieca, la mia fuga a centomila chilometri orari, dovunque tranne che qui, e tutte le mie montagne di odio verso me stessa e un passato di cui mi vergognavo. E naturalmente era anche la self insertion che si scopa Rufus Shinra, ma ok, cioè, che deve fare una ragazza, scste? Regan Caleuche, nata in seguito come la cattiva più cattiva di Kefka, cercava di mettere in allarme me che intanto mi rifiutavo di non vedere: il mio rapporto malsano col sesso, con mio padre, con la mia debolezza e la mia dipendenza, con la mia vita che stavo iniziando fatalmente a non volere più. Bohemian Rhapsody ero tipo io che mi dicevo “Vai da uno psichiatra, tipo”.

Non fu solo un salto nell’inconscio, che ti dico Tifa nella mente di Cloud scansati proprio. Fu anche amore, che ci crediate o no. 

Scrissi la trama di Bohemian Rhapsody in compagnia del mio partner Turk, il Polpo che è da oltre un decennio uno degli elementi del nostro quadrilatero platonico gay. Ci trovavamo sui divani lounge di un albergo che non avevo idea che un giorno avrei finito per ereditare e trasformare in qualcosa di mio quando la mia vita cambiò totalmente per la quarantesima volta, fumavamo come turchi, arrivavamo al pub abituale con una fame sintetica che sembravamo coccodrilli sotto crack, e farcivamo la storia di tutto quello che significava qualcosa per noi. Parlavamo all’infinito di cosa significava ogni battuta dei personaggi che amavamo, e li sentivamo tutti, ben benino piantati nel profondo, con il loro smarrimento, la tenerezza, una Aerith così ferma e inquieta, una Tifa così dolce e broken, la necessità di capire per quale motivo si va avanti.

E poi, naturalmente, c’era youffie17: ci eravamo conosciute con Final Fantasy VII su livejournal, shippando con le amiche Tserith, e aveva funzionato così bene che eravamo andate a vivere insieme a Trieste come coinquiline, e lì per un anno studiammo insieme. Poi ognuna prese la sua strada. Passavamo le giornate, l’altro ieri come ieri, come oggi e come domani, a spremerci le meningi e stannare Final Fantasy VII. Ci incazzavamo con le caratterizzazioni malfatte della Compilation, odiavamo Vincent, gridavamo in capslock alla delizia gay di Nomura in fissa con Gackt. Bohemian Rhapsody inizia il giorno del compleanno di questa ragazza, perché in qualche modo questo viaggio, questo tunnel dall’infanzia ai vent’anni, l’avevamo ripreso insieme; e perché devo ringraziare il mio Spikey di tante cose, di tante parole giuste e ricordi fondanti, di un’amicizia di anni, di un videogioco importante ripreso per caso, perfino di un romanzo salvato dall’anonimato. Ma anche questa è un’altra storia.

In una vita che non stavo più riuscendo a capire, una muraglia di cento metri sormontata da filo spinato, crepe dappertutto, da cui entrava il sorriso di quegli amici, decine e decine di serate passate insieme, ognuno sbattuto come una pallina da flipper ai quattro angoli del globo, ma sempre con Final Fantasy VII. Stavo di merda, francamente. Ma c’erano loro. Eravamo uniti da tutti i nostri meme, e dalla voglia di creare qualcosa da un’argilla che amavamo insieme. Poi andate a dire che sono “solo” videogiochi.  

Quando ho finito di scrivere Bohemian Rhapsody, erano passati ormai otto anni ed erano cambiate tante cose. Dopo essere stata riformata dalla Marina per un improvviso tracollo delirante con minacce di suicidio, dopo essere ritornata a casa umiliata dalla visita con lo psichiatra, senza più poter negare l’evidenza, finalmente esposta e sconfitta, mi ritrovavo a casa in convalescenza, a mandar giù psicofarmaci, a passare da un lavoretto all’altro, a non saper più cosa stavo pensando o dicendo, senza capirci più un cazzo. Stavo male, ovviamente, vabbè, dite voi, grazie al cazzo. Non sapevo più nulla con certezza, sentivo continuamente le voci, i miei ricordi si confondevano con sogni troppo vividi, ero tormentata da visioni continue di insetti e ometti col cappello.

Non riuscivo a rileggere Bohemian Rhapsody, perché a quel punto capivo che parlava di me. La storia di Sephiroth a quell’epoca mi faceva male ma proprio una cosa malissimo. Ero discesa nella follia, e avevo voglia di spaccare tutto, anche me, fino a rifarmi nuova, diversa, più forte, abbastanza da mandarmi a fanculo per davvero. Avevo il rogo di Nibelheim nel cervello quasi ventiquattr’ore su ventiquattro.

Vorrei far notare che nel frattempo ero un membro assai valido della società, adorata dai bambini delle elementari a cui facevano laboratori di inglese e lodata dai clienti sulla spiaggia come una “donna rinata”… e soprattutto “guarda che bene che stai così magra!”. Questa è l’ironia, di stare come stavo, di essere high functioning: nessuno se ne accorge, e va sempre meglio, finché una notte non va peggio, spaventosamente peggio. E così via.

E un giorno mi arrivò un messaggio su Instagram.

Forse qualcuno del twitter se lo sarà immaginato, ma era un messaggio di Cami. La seconda super fan di Yuffie che entrava nella mia vita attraverso Final Fantasy VII; e un’altra che è ancora qui. Quando ho iniziato a scrivere Bohemian Rhapsody, ero felice (in senso maniacale, ovvio) perché stavo scrivendo dopo anni di blocco; quando l’ho finita di scrivere, sono tornata in stop totale, rinnegando completamente tutto quanto.

Finché un giorno non arriva Cami, in una serata di rabbia durante un conflitto familiare per la successione, e a me sembra improvvisamente di aver fatto qualcosa di buono. Per una che in quel momento stava perdendo metà della famiglia e che era convinta di essere un tumore maligno capace solamente di avvelenare quello che toccava, questo era tutto. E ripresi a scrivere, di nuovo grazie a una Yuffie. Pensate che si rimise a scrivere anche lei, e non ha ancora smesso. Questo è quello che chiamo l’atto creativo, un contatto elettrico che cambia veramente le vite delle persone. 

Siamo arrivati al Remake, in questo rapido (????) excursus. Molti di noi ci hanno giocato quando è uscito, in quello strano, strano lockdown. In cerca di un po’ di normalità con nostalgia annessa.

Ricordo di averlo acceso e di aver pianto, mandando un vocale a Cami in cui singhiozzavo urlando, perché mi era bastato sentire il theme della Bombing Mission per perdere completamente la trebisonda. Ricordo anche di aver blurtato queste parole su instagram:

Warning: personal piece ahead, to go with this drawing I had to sketch after being two hours into the game. ❤️☺️ As always the new game has filled me with the urge to express things, painted or written, that I’m not yet skilled enough to express. It’s amazing to have your imagination all ablaze, to be almost engulfed with creativity, so much that you can’t even move, and to send a friend an audiomessage in which you’re crying so loud because of the Bombing Mission theme. I was mad today too, I’m going through a rough time, my life is upside down and I’m still fighting to defeat a severe depressive state. Yet now, after turning off my PS, my mind is filled with stars and living galaxies. I don’t care if Final Fantasy is dead to most people who are surely much more learned that I am, or if I’m silly to cry, or pathetic to take countless screenshots. I remember FFVII brought me back to writing after years of being too apathetic and cynical to take care of my own soul, much like Barret and the others helped Cloud on his way back. I remember being at my most visceral while writing about it. I know for a fact that Cloud and the others saved my inconsequential ass together with the world. Of course they weren’t alone, because I had my friends and some family to watch my back. But sometimes, I was too far into the darkness for them to reach. At that point, there is only your mind. And to experience that feeling in which you are so wildly inspired that you feel you could give life to something new, after years and years and endless days in which your heart rots inside you and your thoughts become the cancer that’s killing you… this is as invaluable as discovering that you want to go on, that you want to save yourself, that you’re not giving up on yourself just yet. This is what Tifa means to me. Heck, even Vincent, the goth disaster. Thank you for Final Fantasy!

Potrei andare avanti, dire come ho messo il gioco in hiatus per riprenderlo adesso e finirlo, nel 2022, grazie a Cami; ho perso il conto di quante volte questo gioco mi ha svoltato l’esistenza, chissà che questa non sia stata davvero la settima, come ho scritto per fare scena nel mio titolo pretenzioso. E che dire di quell’ultima sera di Cami a casa mia, col mio cane Gladio che ci guardava fra l’affettuoso e lo sfinito, quando abbiamo fatto le quattro a giocare perché “Dai cazzo ormai arriviamo a Rufus!”.

Certo se ne potrebbero trovare di problemi, nel Remake, nella Compilation, in quello che volete, se uno si mette lì con quello scopo. Il mio scopo in questo post incasinato scritto di getto (e che non credo avrò il coraggio di revisionare) era diverso.

In questi venticinque anni ho seguito Cloud in fondo al pozzo, e mi sono fatta riaccompagnare su da Tifa e Barret. Ho pensato a qualcosa che non si pensa, che va contro la nostra programmazione, il suicidio. Ho pensato a sfasciare tutto, a bruciare l’universo. Mi sono tirata su e mi sono messa davanti, come Cid. Ho imparato a non avere più rimpianti, come Aerith. E ogni volta rivedere i loro braccini a forma di gommone, o il loro splendore praticamente illegale nel Remake, o i loro exploit un po’ a cazzo di cane nella Compilation, ha rifatto sempre lo stesso miracolo, proprio quando mi sembrava quasi di averli dimenticati: ha viaggiato nel tempo e nello spazio, ha unito me e i miei amici e mi ha riacceso le idee che credevo morte. Non riesco a pensare a una magia più potente di questa.

Considerazioni solo tangenzialmente serie su Basch x Balthier

Considerazioni solo tangenzialmente serie su Basch x Balthier

Io non sono tanto il tipo da OTP e quant’altro.

Vuoi che posso aver interiorizzato per errore la misofangirlia degli inaciditi dell’internet e il mondo delle ship mi ansia (a onor del vero è difficile trovare qualcosa che non lo faccia), vuoi che le sigle e il gergo dell’ambiente si muovono a velocità eccessive per il mio cervello eremita e maladattivo che su tumblr non ci ha mai capito un cazzo e a cui i tag di AO3 sembrano misteri della Cabala… ma per me formare le coppie nei prodotti su cui scrivo fan fiction è sempre stato più come organizzare il matrimonio combinato dei propri figli cadetti in base alla convenienza del proprio casato. Ho messo insieme più soggetti poliamorosi perché tornava bene col senso di closure e i parallelismi di quanti mi piaccia ammettere. Per me è come cucinare, scoprire che posso mettere la curcuma col salmone, e compiacermi del risultato perché sento quel “clic” che fanno le cose quando vanno al loro posto. Non ho molte coppie di cui posso definirmi davvero fan.

Però però, cosa dire di Basch e Balthier.

Siccome in genere quando dico “cosa dire?” poi dico, tipo, sedici post di 500k parole, cerchiamo di imbrigliare subito l’articolo in una parvenza di decenza e di farla breve. Non scuotete la testa alzando gli occhi al cielo, vacche

Questo comporta che non potrò adesso scagliare strali a grappolo contro quelli che “Eh Ma In FinAL FanTAsY XII i XSonagGI nOn Si FiLAno”. Le ripongo nell’apposita pochette dove tengo le pedate sull’osso sacro dedicate ai latori di questo tipo di osservazioni e resto senz’altro in argomento.

Also, non metto headcanon in questo post. Ne ho pochi su di loro, principalmente basati sul concetto per me autobiografico di Balthier che è feisty ma è in cerca di un daddy compassato perché orfano di autorità paterna + il denial perché, a parte che il denial ci sta sempre (letteralmente sempre, dai), ma poi c’ho tutta questa narrativa di Balthier seduttore in fuga che però si spezza il cuore da solo e di Basch che si ostina fino all’ultimo a considerare la cosa alla luce dei propri doveri.

Aspetta cazzo, alla fine ce li ho messi, quindi.

Andiamo avanti…

Innanzitutto io non dico che debbano scopà.

Anzi, a dirla tutta, scrivere Something Human mi ha fatto capire che il fatto che facciano sesso è la cosa che mi interessa di meno di tutto l’ambaradam. Poi le esigenze editoriali esistono, e così ho dovuto mettere le scene di sesso perché sennò l’Azzi, malgrado siamo amici da quindici anni, mi levava il saluto, e non posso dire di non essermene compiaciuta e deliziata anzichenò… ma quello che voglio dire è che il rapporto e le interazioni fra questi due mi rendono felice a prescindere dalla conclusione più ovvia per uno slow burn. Comunque, il giorno che scriverò uno slow burn che non finisca nella canonica scopata fra l’aggressivo e il liberatorio probabilmente non mi vedrete più, perché oh, io sei lettori ho, ma sono tutti e sei allupati e armati di lupara.

Potrei adesso andare in cerca di screenshot da dialoghi e GIF estrapolati dal gioco alla bisogna, ma chi sono io per avere una sega voglia alle ore 21:53 addirittura di documentare quello che dico? Andrò a caso – col vostro permesso, ma anche senza, come diceva il mio prof di inglese alla triennale.

Però vi faccio prima un esempio per farvi una premessa.

Avete presente quando Basch va in cerca di Balthier per scroccargli il transfert dopo essere magicamente ritornato in carne in poche ore, dopo la sua fuga da Nalbina?

Io non sono qui a dirvi che già lì ci vedo qualcosa (intendo dire nel materiale ufficiale stricto sensu, poi coi pairing goggles si possono vedere miracoli ovunque) ma il punto di questo genere di cose per me è avere in mano un’argilla che si lavora bene, e non un canon che mi dà ragione.

Anche perché, secondo me, nelle fan fiction la ragione te la dà la credibilità di qualsiasi cosa tu ti sia inventando, e la credibilità te la dà un complesso di skill tue come scrittore, fra le quali non figura aderire pedissequamente al verbo del canon.

Insomma questo esempio serviva per dirvi che in questo post tutto è completamente gratuito e arbitrario, thanks for coming to my TED talk.

Tornando a bomba.

Con OTP intendo che io, in quel punto, posso pensare che Balthier abbia lasciato in Basch un ricordo residuo dalla loro fuga e un principio minuscolo di piacere al pensiero del nuovo incontro, e questo non è suffragato da niente, ma oh, io voglio stare lì a non seguire nemmeno il dialogo perché c’ho da sognare che Balthier sta pensando remotamente a Basch incontrato in prigione mentre butta giù un bicchierino, e tant’è. E poi va bene, Basch, amore, ma se mi sbatti lì la frase “even caged birds need wings” io come faccio a non imbastire tutto un cucuzzaro di pulsioni represse nella gabbia dell’autocontrollo e dei giuramenti annaffiati con l’angst in cui Balthier diventa le tue ali? Dai oh, va bene tutto, ma so’ umana pure io.

Credo che avere una OTP sia avere una storia che ti fa mettere comodo e ti fa esprimere liberamente, come trovarsi per un drink con la tua gente preferita, quelli che non fanno una faccia stranita quando fai battute sul ciuffo di peli che il tuo cane ha sul pisello (lo stesso non si può dire del cameriere di quella sera, ma restiamo in argomento).

Perciò quando i due battibeccano sulla Strahl subito prima della fuga da Bhujerba, io come si suol dire godo come un topo nel formaggio.

C’è Basch genuinamente preoccupato per le sorti della principessa rampante che decide di allearsi con degli aviopirati, ma c’è anche che è lui il primo a prendere le difese di Balthier di fronte a Vossler; per essere un trentaseienne serio come un film sperimentale svedese, è stato veloce a vedere del buono in Balthier. È vero che ancora dai Garif Basch non è sicuro delle motivazioni di Balthier, ma mi piace pensare che abbia sempre saputo di non doverlo considerare un pericolo, e che lo rispettasse da subito, a differenza magari di Vossler che era condescending e incartapecorito come esige il codice cavalleresco di Dalmasca. D’altra parte poi Vossler scommette sul cavallo sbagliato, l’Impero, e Basch mi ha sempre ammazzata d’amore per la sua scommessa su un party di ragazzini col cuore al posto giusto ma zero carte in regola.

Devo forse aggiungere che la combinazione fra l’austerità signorile di Basch col sarcasmo sassy di Balthier mi fa volare a propulsione spaziale? Io sinceramente sono tentata di dare il merito a Balthier se ad Archades Basch fa addirittura una battuta, ma anche Balthier è cambiato, visto che non fugge più da suo padre. Anche qui non voglio dire che il canon suggerisca che sia stata l’influenza reciproca a fare il miracolo, ma sicuramente quando li scrivo mi piace scriverli così. Poi oh, se per qualcuno le interazioni fra i personaggi del XII sono inconsistenti perché non è capace di immaginarsi nemmeno quanto fa 2×2 se non viene esplicitamente dichiarato quattro volte dal protagonista, dal cattivo, dal narratore e dalla voce fuori campo del tutorial, quello non ci si può fare nulla, la Pimpa dovete leggere, la Pimpa

A proposito di gente che legge la Pimpa, o comunque che dovrebbe farlo: ma seriamente c’è chi non si è accorto di tutti gli sguardi che si scambiano Basch e Balthier nel corso del gioco? Boh bimbi-

Lasciamo stare di metterli insieme nelle fan fic, ma in nome di Cristo, io magari mi motivo con poco ma gli sguardi di commiserazione che si scambiano subito dopo ogni momento topico in cui qualcuno mette in pratica una pessima idea sono ciò che mi tira innanzi nei giorni bui in cui le bollette di tutte le mie utenze arrivano nella stessa consegna. A me questa dinamica degli unici due uomini assennati in un gruppo di ragazzini kamikaze mi uccide non si dice “a me mi” gne gne

Come dire, è un mix di: “ce li vedo tantissimo a scambiarsi considerazioni di ordine pratico e tattico o a parlare di rivolgimenti politici mentre Vaan è impegnato a cercare di insegnare a una Ashe segretamente non così disgustata a fare le scoregge con le ascelle” + “ce la vedo tantissimo questa cosa a degenerare nelle provocazioni di Balthier che diventano pesanti ma che non lo mettono nemmeno nei guai perché tanto Basch è tipo quei cani enormi buoni come il pane” –> questo è il punto dove devo generalmente farli scopare, prima che l’Azzi esca il ferro.

In effetti in parte mi sento felice quando gioco a FFXII ancora, ancora e ancora anche perché mi piace vederli lanciarsi occhiate d’intesa nelle retrovie; mi piace sentirli commentare qualcosa che è successo con quel senso di voler essere guardinghi ma di aver trovato l’intesa; mi piace che, se Balthier e Fran sono soulmates, Basch e Balthier in pochissimo tempo arrivano a formare un altro duo, come se si conoscessero da sempre.

Mi piace anche la fine, perché è triste da far schifo, ma è giusta: nelle fan fiction piace anche a me scrivere che, nella loro infinita indipendenza dall’amore, scelgono innanzitutto di ascoltare la propria chiamata e di seguire la vita dove ha deciso di portarli (i giuramenti di Basch, la libertà di Balthier), invece che indulgere nella vita di coppia. Credo che anche questo piaccia poco di FFXII ai suoi detrattori, eppure secondo me è uno dei suoi più grossi punti di forza: nessuno modifica la propria vita in nome dell’amore romantico, anzi, anche se ha cominciato a provare qualcosa per qualcuno non asseconda nemmeno il sentimento, perché prima vengo io, e le cose che devo fare io. SCST ma per me questo è il top della narrazione, non mi dovete tritare le palle che non ci sono le coppie in FFXII.

E poi, se posso immaginarmi le incursioni clandestine di un certo aviopirata nelle stanze del Giudice Gabranth, io sono felice a prescindere.