Due(mila) parole sul racconto di Ishikawa

Anche se ho sempre voluto utilizzare questo blog come bacino/cloaca di riflessione sulle cose di cui scrivo fan fiction, non mi è mai capitato veramente di dare corso a questa riflessione. Accade però che ultimamente io sia completamente impantanata sulla parte di Tomoe in una long che sto scrivendo su Ghost of Tsushima. Così, per ritardare ulteriormente il momento di scrivere la parte che mi sta sul cazzo (puro e semplice), riflettendo al tempo stesso sulla costruzione dei personaggi in modo da sentirmi meno in colpa circa le mie scadenze auto-imposte, ho pensato di uscirmene con qualche pensiero sul racconto di Sensei Ishikawa. 

NON parlerò della mia fan fiction, perché è un progetto cross-over con un mio romanzo originale e penso che andrei fuori tema e fuori canon quarantasette volte prima di aver finito il post… fuori canon magari ci andrò lo stesso, perché ovviamente le mie opinioni qui dentro faranno davvero del loro meglio per non pisciare fuori dal vaso, ma sapete tutti che quando ti parte l’headcanon non vi è decenza che possa fermarti.

Comunque, parlando del racconto di Ishikawa.

La prima cosa che ho letto su YouTube quando mi sono riguardata tutto il racconto in forma di video onnicomprensivo è stata, abbastanza comprensibilmente:

Ok, lasciamo perdere che mi sono accorta solo ora di aver screenato il commento corto senza premere su Leggi tutto. Ci sono delle volte che purtroppo mi approccio al mezzo comunicativo come la mi mamma che si mette gli occhiali per guardare i meme e nel farlo per sbaglio telefona all’ASL circondariale, si abbona a Candy Crush e manda in stampa tre documenti. Ma insomma avete capito il senso. In effetti la cosa che mi ha sempre reso molto difficile sintonizzarmi davvero sul personaggio di Tomoe è in parte questa: chi è Tomoe? Il gioco mi dà veramente i mezzi per capirlo?

La storia idealmente si dividerebbe nella metà in cui la nostra unica fonte di informazioni è Ishikawa, finché nella seconda metà sentiamo la campana di Tomoe. Purtroppo però la metà di Ishikawa, più che una metà, sono tre quarti, e al punto di vista di Tomoe è dedicato uno spazio davvero ristretto liquidato in gran fretta. Entrambi i personaggi potrebbero letteralmente aver pronunciato una bugia a ogni parola, dato che producono versioni così dissonanti… e la conclusione del racconto non sembra nemmeno tirare tutti i fili della questione; se tira qualcosa, tira i remi in barca, e la fa finita, a mio parere, un po’ troppo alla svelta.

Quindi non sono d’accordo con questo commento (nel senso che “disappointing” mi sembra un tantino esagerato e dettato da una lettura superficiale, ma ci arriverò) ma riesco a vederne il senso: il gioco francamente si aspetta troppo da noi e, nel proporci il punto di vista di Tomoe in pochi minuti, sembra volercelo dare più che altro a bere.

Quindi sì, ora che devo scrivere mi domando, spesso, “chi è Tomoe”.

Naturalmente devi scriverla in modo abbastanza grigio, come si conviene con personaggi essenzialmente non sociopatici ma pur sempre portati all’estremo in nome della sopravvivenza, qualcuno che non è mai chiaro se sia costretto dalle necessità o se ci abbia perfino preso un po’ gusto. Ma il suo rapporto con Ishikawa va essenzialmente dedotto, i crimini passati prima dell’apprendistato immaginati. I suoi pensieri durante il tradimento mongolo, un mistero totale.

“We judged each other too harshly,” scrive Tomoe nella lettera di saluto. Quindi forse i coloriti racconti di Ishikawa, in cui Tomoe è una bestia venuta al mondo con la sete del sangue dei giovinetti e delle vergini tipo signora della Transilvania, è da prendere con le pinze. Ma fino a che punto non lo sapremo mai: la brevissima parte di Tomoe nel racconto, dato che si conclude con un inganno (Tomoe che sfrutta Jin e Ishikawa per imbarcarsi per il Giappone), ti lascia col dubbio se l’arciera astuta, con le sue spiegazioni, ti abbia preso per il naso cercando di suscitarti compassione. Ripeto, deludente no, ma eccessivamente succinto sì, può darsi.

Vorrei precisare che il racconto di Ishikawa l’ho amato moltissimo. Sarà forse che non avrei mai voluto finirlo, che mi fa parlare così. Però ho avuto la sensazione che, se la carica poetica era altissima, la soddisfazione narrativa per il giocatore alla fine fosse meno del previsto, non tanto perché il finale fosse aperto, ma perché il verdetto sui personaggi è stato lasciato totalmente al mio giudizio senza che però io mi senta di avere in mano elementi a sufficienza. Una bellissima conclusione, con Tomoe che si allontana su una barca senza cercare di nascondersi e di sottrarsi alla freccia fatale (non viene uccisa, ok, ma era pronta a questa evenienza, e si offriva come bersaglio), mentre i due leggono la sua lettera, ma risolve davvero tutta la carne che è stata messa al fuoco?

Seguitiamo col dire che io a Ishikawa gli voglio bene. Non posso non voler bene a quel jerk che ti fa scalare in free climbing una parete rocciosa solo per poi fare comodamente il giro e prenderti pure per il culo, insomma. I dialoghi in cui strapazza Jin sono stati la mia ragione di vita per tutto il gioco. Naturalmente sono bollita per bene nel mio brodo di giuggiole anche tutte le volte che Jin gli ha tenuto testa, generando dei dialoghi che secondo me sono dei capolavori del sarcasmo appena trattenuto, fra la necessaria distanza sociale e la voglia di infilare al tuo interlocutore un Artefatto Mongolo nell’occhio.

Sinceramente però, quando è diventato chiaro che Ishikawa ha un po’ il vizio di raccontare solo una parte della storia, o addirittura di alterarla a suo comodo per uscirne meno malconcio, io sono stata ufficialmente conquistata. Sarà che inserire personaggi bugiardi, a mio modo di vedere, è un po’ il marchio (che ho sempre invidiato) di chi sa scrivere rispetto agli scrittori della domenica, sarà quella testa a uovo con la receding hairline e l’occhio pigro, ma insomma, potete considerarmi un sensei Ishikawa stan account.

Anche questo racconto, come in definitiva tutti gli altri, ruota intorno a una figura diventata incompatibile con la via del samurai. Tanto per citare l’esempio più lampante: a seguito del tradimento di Hironori, laddove il codice del samurai* avrebbe preteso da Ishikawa di precipitarsi a morire il più velocemente possibile, abbiamo un uomo che ammette con Jin di essersi detto di voler far sopravvivere la Via dell’Arco, per non aver avuto il coraggio di affrontare il suicidio. Un uomo che se l’è raccontata, in parole povere. In questo modo l’arciere si trova a convivere col conflitto di una vita che si è risparmiato per poi sentire di averla nuovamente sprecata con un allievo traditore. Per salvare il salvabile, Ishikawa sembra dedito a proteggere come può il proprio onore di guerriero anche a costo di mentire, ma alla fine compie il suo più clamoroso distacco dal codice d’onore, e rinuncia a punire Tomoe, forse non essendo capace di ucciderla. Tutto questo è molto bello perché praticamente su Tsushima l’unico che si ossessiona con ‘sto benedetto codice è lord Shimura e tutti gli altri fanno allegramente il cazzo che gli pare.

*Sto ancora studiando, e il mio testo di riferimento per ora è soltanto l’Hagakure, quindi si parla di parecchio tempo dopo gli eventi dell’invasione dei mongoli del XIII secolo; non ho la minima idea se le stesse considerazioni siano applicabili anche a un’epoca precedente, ma guardando ai dialoghi di lord Shimura mi sembra di non buttarla tanto di fuori anche se mi riferisco a precetti morali del 1700.

Certamente le fasi iniziali e centrali del racconto non depongono molto a favore di Tomoe: non sono assistiamo alla gioconda pratica di trasformare il contado locale in puntaspilli per esercizio di tiro con l’arco, ma veniamo anche a sapere che da adolescente, prima di recarsi da Ishikawa, Tomoe ha già avuto la sua esperienza in un gruppo di banditi che terrorizzavano Otsuna.

Al contempo però anche Jin sembra dubbioso su come interpretare la questione. Ricostruendo un po’ a senso, e un po’ a piacere, tutta la vicenda, si può immaginare che, dopo che Ishikawa ha tentato di ucciderla a seguito di un brutto tiro giocato ai Nagao, in Tomoe fossero pronti a germogliare i semi del tradimento, e non sia tanto sorprendente che, messa di fronte alla scelta fra la vita e la morte, abbia scelto di vivere tradendo gli insegnamenti di Ishikawa e un Giappone che non le ha mai dato niente di quel che meritava (“You drove her to the Mongols,” dice Jin). Tradire, in sintesi, perché in fondo non si sente di avere un ideale per cui morire… e certamente è una mancanza, per il maestro, non essere riuscito a trasmetterne uno. Ma dopotutto la via del samurai è fatta più a misura di un nobile guerriero che di un nullatenente, ma forse di questo parlerò meglio a proposito di Ryuzo. Ma fino a che punto Tomoe era sofferente nel tradimento? E quell’azione contro i Nagao? Involontaria, o perfettamente cosciente, magari già col desiderio di punire Ishikawa?

Risposta non pervenuta, tanto per cambiare; a fatica un paio di righe di dialogo, e da parte di un relatore quantomeno parziale. Quel che trovo simultaneamente intelligente e irritante nel racconto di Ishikawa è che la verità non è servita su un piatto d’argento, ma anzi, è nascosta così a puntino da non essere del tutto chiara neppure alla fine della storia. I narratori della storia sono inaffidabili. Che ripeto, è un bel tratto nella scrittura (o quantomeno un tratto che mi piace molto) ma quando poi tocca a te scriverci su ti ritrovi, per dirla in istile trovatore, che non ci hai capito un cazzo di niente.

In questo racconto (come succede anche in altri nel gioco) ti devi sostanzialmente levare dalla testa il vezzo di identificare la vittima e il carnefice… certo, fermo restando che i contadini di cui sopra trasformati in arrosticini concorrono egregiamente al ruolo di vittime in tutti questi giochi di morte. Ma fra Tomoe e Ishikawa, è più difficile da dire: ci facciamo un’idea di un maestro crudo, quasi cattivo, acciaio spalmato di vetriolo, probabilmente empatico come il sensei di Uma Thurman in Kill Bill, incapace di fornire una direzione nuova a quella che invece è un’anima che ha vissuto sempre nella violenza, nell’espediente per sopravvivere, nella sfumatura di ogni possibile moralità. Sappiamo che entrambi avevano un temperamento orgoglioso, che non deve aver originato una collisione piacevole; e che l’allievo ha tradito, sì, ma che automaticamente quindi il maestro ha fallito.

E cosa si può dire del terzo allievo di Ishikawa, Jin? Dal punto di vista di un samurai, anche lui, che volta le spalle al bushido per diventare lo Spettro, si può considerare un fallimento; è vero che è principio aureo aiutare il prossimo in ogni occasione e che si può dire che Jin abbia sfigurato la via del guerriero, paradossalmente, nel tentativo di seguirla fino in fondo, ma se consideriamo lord Shimura l’autorità morale a cui fare riferimento per quanto riguarda il codice, ovviamente dobbiamo concludere che Jin sia un completo rinnegato, non esattamente l’allievo dell’anno. D’altra parte non è detto che Ishikawa, alla fine del racconto, la pensi ancora così. Si ha al contrario l’impressione che i massimalismi samurai ormai siano una questione abbastanza nebulosa per l’arciere: col risparmiare Tomoe, Ishikawa ci dimostra di essere giunto alla conclusione di voler fare dei compromessi affettivi, e quindi in fin dei conti non sapremo mai se si considererà soddisfatto o meno del suo lavoro con Jin, ma non dobbiamo più concludere per forza che la risposta sia no. Sempre perché comunque Lord Shimura è l’unico che ci tiene a queste cose, pover’uomo.

A detta di gran parte dei commentatori su internet, Tomoe non avrebbe avuto diritto al lieto fine, ma la mia opinione è più sfumata. Certamente, all’occidentale, si tratta di un lieto fine a tutti gli effetti, salpando verso una nuova vita. Interpretato sotto l’etica samurai che permea tutto il gioco, è invece un finale senza la necessaria chiusura, uno di rinuncia a qualunque principio necessario alla vita (e quindi paradossalmente, di morte), in cui la conservazione della propria vita si vena di considerazioni amare. Narrativamente poi è una dolcezza un po’ striata di tristezza: “The way of the bow is behind me”. Sigh.

In pratica, il racconto finisce con un fallimento su tutta la linea per Ishikawa, anche se naturalmente ci si può consolare considerando quel cedimento di tenerezza nel risparmiare la vita a quella che sarebbe stata sua figlia. Del resto, non ha forse avuto Ishikawa stesso un momento di cedimento quando ha confidato a Jin di essersi pentito di non essersi dedicato a creare una famiglia? “Family is more important,” dice, avvertendolo di non lasciarsi consumare dallo Spettro, come lui è stato consumato dalla Via dell’Arco. E alla fine la famiglia davvero è più importante, e la cosa si traduce nella rinuncia a uccidere Tomoe. Sono d’accordo anch’io che la storia non ha reso a Tomoe un grande servizio e che il finale non fosse molto soddisfacente dal suo punto di vista, ma sicuramente era un finale davvero toccante per Ishikawa, che era pur sempre il “titolare” del racconto. Così, Tomoe è una sorta di comprimaria non portata totalmente a compimento, il che è un peccato.

Comunque non penso che dimenticherò tanto facilmente certe inquadrature: Tomoe con la maschera di volpe che si getta dalla scogliera, Matsu nella neve, i grugniti sconnessi di Ishikawa per nascondere il dolore, e perché no, anche tutti quei bei braccianti appesi come prosciuttini. Continuo a non sapere veramente come regolarmi con la scrittura di questi passaggi, ma sicuramente il racconto di Ishikawa mi ha dato di che pensare e ricordare.

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